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Come la rana nella pentola

Prendete una rana e mettetela in una pentola d'acqua fredda, poi lentamente portate a bollore. La rana non scapperà, si accorgerà del pericolo solo poco alla volta, incredula. Tenterà la fuga solo quando sarà ormai priva delle forze necessarie ad andarsene, ad uscire dalla situazione mortale.

Per molte donne la violenza domestica è così. La violenza lenta e progressiva di un rapporto oppressivo, esclusivo, patologico e mortale, che si rivela poco a poco.
All'inizio il dolore è solo una puntura di spillo, si giustifica l'aggressività, il silenzio e il rancore. Si sopporta la gelosia, le interferenze scambiandoli per amore. Si accetta lo svilimento, l'umiliazione sottile e continua. Inutilmente si spera che tutto tornerà come prima.


Per alcune, un evento esterno è la rivelazione, lo svelamento di una situazione che non ha nulla di normale, ed è la salvezza della fuga.
Per molte altre la famiglia, gli amici, non capiscono, non sanno o non vogliono sapere; le richieste di aiuto restano inascoltate, i consigli mal riposti. Si resta così intrappolate in un rapporto che conduce alla morte, reale o morale, della donna e all'annientamento di sé.


Questo racconto è ispirato ad una storia vera ed è il mio contributo alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne . 



Si guardava i piedi, la pelle bianca sul verde acceso del prato e lo smalto rosso brillante sulle unghie corte, immobili a raccogliere il fresco umido della terra. I piccoli piedini accanto ai suoi invece, due a destra e due a sinistra, si muovevano allegramente, accarezzando e stringendo i fili d’erba leggeri.
Era la prima volta che organizzava un pic-nic per i suoi due bambini. E per la prima volta tutti e tre si sentivano finalmente liberi, di una libertà mai vissuta nella loro breve vita insieme. Mentre i piccoli giocavano a chi riuscisse a prendere più margherite con le dita dei piedi, lei pensava al significato di quella parola, libertà, e al suo contrario.
Non era stato così difficile, aveva semplicemente deciso di fare un pic-nic ed era salita in auto coi due piccoli, guidando fino al parco più grande che conosceva. Libertà, dunque, doveva essere proprio questo: poter decidere e mettere in atto le proprie decisioni. La preparazione di quella giornata tuttavia, aveva richiesto qualche anno.
Due anni prima, nel negozio per l’infanzia dove era solita acquistare biberon, aveva trovato una splendida coperta da pic-nic, di quelle col lato impermeabile. Era in offerta, e nella sua mente già si vedeva seduta sul morbido lato in tessuto con la bimba sulle ginocchia e suo marito accanto a loro. Nemmeno nei sogni ad occhi aperti suo marito l’abbracciava.
Non avrebbe mai pensato di acquistare qualcosa di simile a prezzo pieno, ma anche a metà prezzo, suo marito l’avrebbe comunque tempestata di domande: a che ti serve, dove l’hai trovata, quanto hai speso, perché l’hai comprata, cosa ce ne facciamo. Così la coperta trovò posto nel baule dell’auto, dentro lo scatolone con le borse vuote per la spesa e le catene. Restò lì per altri due anni, finché lei non issò i bambini sui seggiolini e guidò per quindici chilometri fino al parco con il fiume in mezzo.
Rimuginava sulle tracce che aveva lasciato. Non aveva preparato nulla, nessun panino, nessun thermos, nulla che facesse pensare che erano andati ad un pic-nic. Ogni cosa nel frigorifero era esattamente nello stesso posto del mattino, e anche i cucchiaini e le forchette erano al loro posto, perfettamente allineati con i manici tutti nello stesso verso. I giacchetti impermeabili dei bambini erano appesi nell’attaccapanni e il passeggino del piccolo non era in casa, come per andare a fare una passeggiata.
Se qualcosa non era al suo posto, lui se ne accorgeva sempre. Negli ultimi tempi, lei aveva cominciato a pensare a lui come al Terminator, con quel suo occhio rosso che ispeziona tutto. Il problema è che lei non somigliava per niente a Sarah Connor. Ogni sera tornava a casa in auto troppo velocemente, pensando se qualcosa quella mattina fosse rimasta fuori posto e accelerando nella speranza di rientrare prima di lui. Non è che succedesse niente se qualcosa non era come lui si aspettava, ma arrivavano sempre quelle strane domande tipo “Perché lo straccio è sulla tavola?” e qualsiasi risposta che lei poteva dare non gli andava bene, perché comunque aveva fatto qualcosa di stupido. E lei continuava a scusarsi e scusarsi, ma arrivava sempre la frase finale “Non serve che chiedi scusa dopo che hai sbagliato. Dovevi pensarci prima.”
E’ vero: avrebbe dovuto pensarci prima. Comunque per oggi era tutto in ordine, aveva lasciato tutto a posto, anche gli asciugamani della cucina che ieri l’avevano fatta piangere. Non che lei piangesse per gli asciugamani, no di certo, ma come fosse finito a dire che lei è una buona a nulla, questo non se lo riusciva a spiegare. Succedeva ogni volta. Sapeva di essere una moglie incapace, perché per lui quel che faceva non era mai sufficiente, anche se ogni giorno telefonava alla suocera per sapere come fare quello o quell’altro. Non puliva il bagno tutti i giorni, non ci riusciva. E non cucinava pranzo e cena fin dalle dieci del mattino, perché a quell’ora era al lavoro, questo faceva di lei una moglie incapace. “Ah, ma ti devi organizzare! Non sei capace di organizzarti,” tuonava al telefono la suocera casalinga full-time.
Oggi voleva dedicarsi ai bambini. Aveva preso una giornata di ferie per far loro provare la prima volta di qualche cosa, come il pic-nic e i fiori dei ciliegi che cadevano su di loro, per quello aveva steso la coperta sotto gli alberi rosa.
«Alberi rosa! Alberi rosa!» gridavano ogni tanto i due bambini scrollandosi di dosso i petali o ricoprendosene raccogliendoli dall’erba, a seconda del gioco che inventavano.
Ogni loro gridolino valeva la paura del Viaggio, così lo chiamava nella sua mente, Il Viaggio. I quindici chilometri da casa al parco. Lungo il percorso, ad ogni metro che avanzava, capiva che ce l’avrebbe fatta, che i bambini avrebbero scoperto il pic-nic, le foglie dei ciliegi, la tavola calda a fianco del parco. Ed ora eccoli finalmente lì, seduti una di fronte agli altri ad osservarsi mangiare tortellini e tagliatelle senza che nessuno criticasse il condimento scelto per ogni piatto.
Nel piccolo convivio alla tavola calda, riviveva il pranzo di qualche mese prima, quando aveva scoperto che prendere un ragù coi piselli sui ravioli era da Imbecilli, questo era il termine esatto: Imbecilli. Quel giorno suo marito si era vergognato di lei e l’aveva mortificata davanti ai suoi genitori che offrivano il pranzo. Era un’Imbecille, perché tutto il mondo, tranne lei e i suoi genitori, sapevano che quel condimento si usa solo sulle tagliatelle e lei non doveva osare proporlo al piccolo per i suoi ravioli: adesso il bambino voleva solo quello e il padre si stava vergognando davanti a tutti. Che bisogno c’era di ordinare tutte cose diverse? Era meglio mangiare la stessa cosa, era più semplice, e se le tagliatelle devono essere mangiate col ragù o i funghi, i ravioli devono essere col pomodoro, lo sanno tutti.
Tutti tranne lei e i suoi genitori, che andavano dietro ai capricci dei bambini, perciò lui si era alzato ed era andato via, lasciandoli con la piccola utilitaria dei nonni a tornare a casa senza seggiolini per i bimbi. «Vai piano nonno, che hai un tesoro qui dentro», diceva nervosamente la nonna sulla via del ritorno.
Erano tornati sani e salvi e per tutto il pomeriggio la nonna aveva cercato di rasserenare mamma e bambini facendoli stare a casa sua, a giocare con le costruzioni guardando la piccola esploratrice e la sua scimmietta in TV.  Lei era rimasta seduta sul divano di sua madre, nella stessa posizione in cui riposava dopo la scuola, le parole di suo marito cominciavano a scivolarle sopra come vent’anni prima quelle dei suoi compagni di scuola. Imbecille. Incapace. Invornita. Brutta. Cicciona. Sfigata.
Dopo quel giorno, nemmeno i suoi genitori vennero più a casa sua. Come molti suoi amici, soffrivano a vedere come lui la trattava. Ma era suo marito e lei aveva sempre avuto una certa idea del matrimonio, “il matrimonio è per sempre,” si ripeteva, “e se qualcosa va male, è colpa di entrambi.” Così ci provava continuamente ad essere una moglie migliore, ma non era abbastanza brava.
Gli amici più cari la chiamavano di nascosto quando sapevano che lui non c’era. Così lei poteva sfogarsi e parlare. La settimana scorsa era stata invitata al mare con i bambini, ma non aveva avuto il coraggio di dirlo a suo marito. Lui avrebbe rifiutato, era un costo inutile, non serviva a niente. E poi non era nemmeno estate, che ci si andava a fare? Lei avrebbe voluto portarli a mangiare un gelato nel cono lungo il viale dei pini. Si sarebbero divertiti a vedere quegli alberi a forma di ombrello. Lui non c’era mai stato in quel litorale e lei sapeva quanto odiasse le novità. Avrebbe trovato un nuovo motivo per farla sentire stupida, così non glielo aveva nemmeno accennato.
I bambini ora stavano mangiando il gelato, la più grande lo assaporava lentamente, mentre il piccolo aveva quasi finito il suo cono confezionato e un cerchio di cioccolata scura gli circondava la bocca minuscola mentre gli occhi brillavano di piacere.
Il tempo si fermò quando un pezzo di cialda cadde sul vestito della bimba. I suoi occhi passarono dal sorriso al terrore in un momento «E’ caduto per sbaglio,» ripeteva «non l’ho fatto apposta.»
Se ne accorse quando ormai la bambina era in lacrime, ma ormai non poteva più fermarla «Non importa,» cercava di rassicurarla «non ti sgrido per questo, non piangere.»
Era stato tutto troppo bello. Una giornata intera senza pianti, sgridate o urla era qualcosa di troppo strano. Forse la bambina si chiedeva perché la mamma non la sgridasse, forse non capiva perché per tutto il pranzo non le fosse stato chiesto di stare dritta, composta, masticare a bocca chiusa, usare la forchetta. Per la prima volta la madre aveva osservato la figlia mangiare fino alla fine, senza interrompersi, senza rinunciare dopo il ventesimo ordine di non sporcarsi.
Fino al gelato.
«Dite un po’ bimbi, vi è piaciuto andare in macchina con la mamma?» cercava di distrarla dal pianto mentre chiedeva il conto.
Certo che era piaciuto. La mamma guidava calma, evitava le frenate brusche e impostava le curve con delicatezza; usava il cambio senza parsimonia e parlava con loro durante il tragitto, aprendo una fessura nei finestrini, se lo chiedevano, e allungando un cracker se necessario. Papà si offendeva sempre quando volevano che guidasse lei, perciò quando c’era lui lo lasciava fare, così poi non arrivava la solita domanda «Perché, io guido male?». Lei non sapeva come rispondere. Ogni risposta era sbagliata.

Mentre pagava, faceva l’inventario: bancomat, carta di credito, documenti, carte d’identità dei bambini, patente… Suo marito era ossessionato dalle check list, prima di uscire controllava mille volte portafogli, chiavi, gas e luce. Poi tornava dentro a ricontrollare con la scusa di bere un goccio d’acqua.
Non mancava nulla. Aiutò i bambini a salire sui sedili, allacciandoli sicuri e ripulendo il piccolo con una salvietta. Mentre ripiegava la coperta del pic-nic, pensò divertita a quel romanzo che aveva letto anni prima: bastava un asciugamano per viaggiare nello spazio. Tutto sommato lei era più attrezzata.
Salì in auto senza più l’ansia di percorrere i quindici chilometri che la separavano dalla sua abitazione. Senza la paura di tornare a casa. Quindici o centocinquanta che differenza poteva fare? Accese l’autoradio e selezionò una delle tracce preferite dai bambini «Seconda stella a destra, questo è il cammino / e poi dritto, fino al mattino» cominciarono a cantare a squarciagola mentre l’auto svoltava nell'altra direzione, verso la strada per il mare.

NdA: I fatti che hanno ispirato questo racconto risalgono a più di sei anni fa, ma solo oggi ho creduto possibile pubblicarlo.


Licenza Creative Commons
Quest'opera di Katia Castiglioni è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.



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Lettura consigliata:
Nora Il silenzio deve tacere di Amalia Bonagura

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